XVI – TRAPPOLA PER TOPI


Ero piccolo, ma mi ricordo molto bene dei conigli e delle galline di mio nonno.
I dunèi e i galìni, come diceva lui.
Mi ricordo anche di quando li ammazzava i conigli.
Lui non mi faceva avvicinare, ma io lo spiavo dalla cantina.
Non vi racconterò di come faceva.
In vita mia io non ho mai ammazzato nessun coniglio, ma due galline sì. C’era però un valido motivo.
Questa, però, è un’altra storia e ve la racconterò un’altra volta.
Adesso torniamo ai conigli e alle galline di mio nonno.

Nell’angolo del giardino più lontano dalla casa c’era il casotto, non saprei come altro definirlo.
Una costruzione di legno di 15 metri quadrati circa, tetto con travetti di legno e tegole marsigliesi. All’interno, in basso, c’erano le gabbie dei conigli. Gabbie costruite da mio nonno.
Semplici telai di legno con reti in ferro magliato. Sia sul davanti che sotto. Le reti, intendo.
Così le bagole, le feci dei conigli, finivano per terra.
Ogni mattina mio nonno le raccoglieva e le metteva sulla mida. Non so come si traduca il termine mida in italiano. Di fatto era il mucchio del letame, che cresceva sempre più.
Mida era anche il nome di un re della mitologia greca che trasformava in oro tutto ciò che toccava.
E il letame dei conigli, usato come concime, era oro per l’orto. Mio nonno lo vangava verso fine inverno-inizio primavera.
Nella parte alta del casotto aveva ricavato un piccolo fienile per l’inverno. Nelle altre stagioni, invece, falciava l’erba sulle rive dei fossi e la dava direttamente da mangiare ai conigli.
Non ne avevamo molti. Ricordo che, ogni volta che nascevano, mio nonno me li faceva vedere. Ricordo anche che erano molto delicati, nel senso che capitava spesso che qualche coniglio morisse. E ricordo anche che mia nonna incolpava sempre mio nonno. Ma non vorrei dipingerla troppo cattiva.
Avevamo anche le galline.
Quelle mi piacevano di meno. Esteticamente, intendo.
Mi piaceva, invece, mangiarle. Soprattutto le cosce. Si faceva fatica a piluccare la carne dalle ossa, non come quella dei polli di allevamento, che si stacca da sola. E anche il sapore era diverso.
Mi piacevano anche le uova. Soprattutto la frittata, come ho già scritto in “L’ortaglia”.
Ma dove ci sono i conigli e le galline, ahimè, ci sono anche i topi. E belli grossi anche.
E, dove ci sono i topi, non può mancare la trappola per topi.
Si dai, chiamerò questo racconto “Trappola per topi”.
Me la ricordo bene la trappola per topi.
L’aveva costruita mio nonno con le sue mani.
Una sorta di cassa di legno.
La sera piazzava la trappola, alzava la portella frontale e la “puntava” all’esca tramite un rimando.
Non ricordo che cosa usasse come esca per attirare i topi.
Forse croste formaggio. O forse no, perché quelle le mangiavamo nella pastina.
Non ricordo, ma poco importa.
Ricordo, però, che le croste di formaggio nella pastina erano buonissime.
Torniamo alla trappola.
Non appena il topo sfiorava l’esca, il rimando sganciava la portella e il gioco era fatto.
Preso!
Il retro della trappola non era in legno.
Era di rete in ferro magliato.
La stessa rete delle gabbie dei conigli, per intenderci. Così potevi vedere il topo ed essere certo che la trappola non fosse scattata a vuoto.
Non so se posso raccontarvi che fine facevano i topi una volta catturati.
Non vorrei mai che mio nonno si beccasse una denuncia postuma…
Ma sì, dai che ve lo racconto!
Il fosso de “L’ortaglia” ve lo ricordate?
Ebbene, mio nonno immergeva la gabbia nel fosso per alcuni minuti e il gioco era fatto.
Morto annegato.
Non sempre, però, scorreva l’acqua nel fosso.
Quando il fosso era in secca mio nonno usava uno stiletto in ferro per infilzare i topi.
Non era semplice.
Doveva inserire lo stiletto nelle magliature della rete metallica per infilzarli.
E loro, i topi, non è che se ne stessero immobili…

Rivolta d’Adda, venerdì 26 settembre 2014

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