XXIII – SBURLOT


Sono le 8.00.
Oggi mi sembra di stare un po’ meglio di ieri.
Speriamo in bene, perché domani vorrei rientrare al lavoro.
Prima di parlare dello sburlot dobbiamo chiudere il racconto del granoturco.
Pertanto, consiglio a chi non l’avesse ancora fatto, di leggere prima “Melgot”.
Una volta a casa, le pannocchie dovevano essere sgranate.
Bisognava togliere i chicchi di mais dal torsolo della pannocchia, per intenderci.
Si poteva fare in vari modi.
Io toglievo tre o quattro file di chicchi, con il pollice, lungo tutta la pannocchia. I primi chicchi, quelli dove la pannocchia era attaccata al fusto, erano quelli più tenaci da sgranare. Una volta “fatta la fila”, come la chiamavo io, il gioco era fatto. Gli altri chicchi si sgranavano con facilità.
Vi racconto l’altro modo.Mi facevo spezzare a metà la pannocchia da mio nonno e poi procedevo come già descritto sopra. Così non facevo fatica.
Non so se avete capito. Perché è più facile a vedersi che a spiegarsi. Poi, una volta sgranate le pannocchie, mio nonno metteva i chicchi di mais al sole per farli essiccare per bene prima di metterli nei sacchi di iuta.
Cibo per galline.
Il granoturco diventava cibo per galline.
Adesso chiudiamola qua con il mais e parliamo di pesca.
Con mio papà ci andavo spesso a pescare.
Lui pescava con le canne.
Fisse e a mulinello.
Di questo scriverò un’altra volta.
Torniamo a quando mio nonno mi portò a pescare per la prima volta con lui.
Non so neanche se sia corretto usare il termine pescare in questo caso. Frequentavo ancora l’asilo.
Frequentavo è una parola grossa… diciamo ci andavo ogni tanto.
Stivali a mezza gamba mio nonno. Stivaletti più bassi io.
Ci andammo di mattina, in bicicletta, però non ricordo dove.
Lui con una sola mano sul manubrio perché nell’altra aveva lo sburlot, come lo chiamava lui.
Avete presente quella specie di retino a forma di settore circolare usato ancora adesso per la raccolta delle vongole? Lo sburlot era simile, solo un po’ più grosso. Telaio di ferro, rete e un manico di legno.
Tutto qua lo sburlot.
La tecnica di pesca era però diversa da quella delle vongole.
Ve la descrivo brevemente. Una persona tiene ben appoggiato sul fondo del fosso lo sburlot, muovendolo a destra o sinistra quando i pesci cercano di scappare sui lati. L’altra persona avanza dal lato opposto, spaventando i pesci per indirizzarli verso lo sburlot. Per questo bisogna andarci in due persone a pescare con lo sburlot. Due persone adulte, intendo.
Io non potevo certo fare il “secondo” all’età che avevo.
Stavo sulla riva del fosso a guardare.
Ho scritto fosso, anche se in realtà era un fontanile.
Vi dico subito che non era quello del Paladino. Il Paladino è molto lontano da Rivolta e mi sarei ricordato se fossimo andati in bici fino là.
Torniamo alla pesca.
Mio nonno fissò lo sburlot, con dei legni, sul fondo del fontanile.
Poi fece il “secondo”. Avanti e indietro nel fosso cercando anche di intorpidire un po’ l’acqua.
Ed io che camminavo avanti e indietro sulla riva del fosso. Di fianco a lui.
Qualche pesce sfuggiva sui lati. Qualche altro entrava nello sburlot, ma poi usciva.
Qualche pesce, però, lo prese.
Li toglieva delicatamente dalla rete e me li porgeva di volta in volta. Non erano grossi.
Io li mettevo in un secchiello pieno d’acqua. Alla fine, nel secchiello, c’erano una decina di pesci.
Prese anche due rane, però le liberò.
E, alla fine, liberò anche i pesci…
Mi portò solo per farmi vedere come si pescava con lo sburlot.
Sulla via del ritorno, mi raccontò di quanti pesci prendevano una volta. Quando ci andava con un suo amico.
Quelli sì che li tenevano.
Per mangiarli.
Quando traslocammo in via Gramsci, lo sburlot venne con noi. Rimase appeso per molti anni all’interno della casetta degli attrezzi.
Poi la struttura di ferro si arrugginì sempre più e la rete marcì.
Quando demolimmo la casetta degli attrezzi, per ampliare il garage, lo sburlot finì in discarica.
Era il 1997.

Rivolta d’Adda, domenica 28 settembre 2014

Pescatore